mercoledì 13 aprile 2016

"G" come giardini dell'anima


Il botanico di Agadir si portava addosso l’odore dei tanti paesi che aveva conosciuto. C’era qualcosa in lui di Madrid e prima ancora di Londra, città in cui aveva lavorato come esperto della Worshipful Society of Apothecaries. Profumava dello zenzero degli splendidi giardini di Singapore misto a un punta di ciliegio caratteristica del koishikawa korakuen garden di Tokyo.

La barba poco curata, se ne stava seduto quasi accovacciato. Quasi a voler nascondere il completo scuro e stropicciato o la scheggiatura sulla lente bifocale sinistra.

Nulla del suo aspetto, per quanto trasandato, mi aveva colpito. Ero rapita dalla sua grafia. Un lettering perfetto, annotato su un moleskin con copertina cobalto. Una calligrafia da designer.

Sarà un artista – mi dissi – un architetto o un illustratore a giudicare dalle proporzioni perfette del suo tratto e dalla penna gel uni-ball eye made in Japan tra le sue dita. Che armonia in quelle pagine e in quegli schizzi, notazioni cristallizzate su carta, tra le fermate di una metro affollata di passeggeri distratti e assonnati.

Protetto dall’anonimato, garantito dal naturale essere di passaggio dei viaggiatori, il botanico di Agadir studiava assorto la disposizione di peonie e gladioli, tipiche piante marocchine, nel terrazzo del suo primo – e forse unico – committente.

Sulla capacità di resistenza delle orchidee, la condensa della serra berlinese, il Grobe Tropenhaus, si impadronì dei suoi occhi. Quelle piante dovevano ricordargli un amore perduto, un figlio lontano, una vita da migrante nei giardini del mondo e dell’anima. Su quel punto, raggiunta la banchina della stazione centrale, chiuse il blocco e con esso, la finestra sul suo mondo segreto.

Nessun commento:

Posta un commento