Il botanico di Agadir si portava addosso l’odore dei tanti
paesi che aveva conosciuto. C’era qualcosa in lui di Madrid e prima ancora di
Londra, città in cui aveva lavorato come esperto della Worshipful Society of Apothecaries. Profumava dello zenzero degli
splendidi giardini di Singapore misto a un punta di ciliegio caratteristica del
koishikawa korakuen garden di Tokyo.
La barba poco curata, se ne stava seduto quasi accovacciato.
Quasi a voler nascondere il completo scuro e stropicciato o la scheggiatura sulla
lente bifocale sinistra.
Nulla del suo aspetto, per quanto trasandato, mi aveva colpito.
Ero rapita dalla sua grafia. Un lettering perfetto, annotato su un moleskin con
copertina cobalto. Una calligrafia da designer.
Sarà un artista –
mi dissi – un architetto o un illustratore
a giudicare dalle proporzioni perfette del suo tratto e dalla penna gel
uni-ball eye made in Japan tra le sue dita. Che armonia in quelle pagine e
in quegli schizzi, notazioni cristallizzate su carta, tra le fermate di una
metro affollata di passeggeri distratti e assonnati.
Protetto dall’anonimato, garantito dal naturale essere di
passaggio dei viaggiatori, il botanico di Agadir studiava assorto la
disposizione di peonie e gladioli, tipiche piante marocchine, nel terrazzo del
suo primo – e forse unico – committente.
Sulla capacità di resistenza delle orchidee, la condensa
della serra berlinese, il Grobe Tropenhaus, si impadronì dei suoi occhi. Quelle
piante dovevano ricordargli un amore perduto, un figlio lontano, una vita da
migrante nei giardini del mondo e dell’anima. Su quel punto, raggiunta la
banchina della stazione centrale, chiuse il blocco e con esso, la finestra sul
suo mondo segreto.
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